Amore a primo ascolto. Cosi è scoccato, istantaneo, il mio rapporto con i Deafheaven.
Parigi, 16 luglio 2018 pomeriggio: entro in uno dei tanti mega store Fnac sparsi nella capitale, a Montparnasse. Subito parto a scavare nell'ottimo assortimento cd e vinile presente, mentre in sottofondo scorre in heavy rotation un disco appena pubblicato, caldamente consigliato come album della settimana. Scorrono i dischi sottomano, anche con una certa velocità (svariati anni di allenamento...), e scorre ancor più il disco, sempre più avvincente. Comincio ad invaghirmi, al punto che vado a chiedere al commesso in postazione chi sono: ”It's the new Deafheaven album, on Anti records”. Li conosco giust'appena di nome e distrattamente, fuorviato da quanto letto in passato, tacciati di essere un gruppo buono per gli hipster...Continuo a pensare a cosa acquistare, altri 20 minuti e siamo a 3/4 dell'album...Sono catturato letteralmente dalle note che si diffondono nel reparto, tanto da ritornare dal solito commesso ad approfondire la questione: ”Incredibile...black metal with melodies indie or shoegaze!”, sfuriate black metal ma dalle nitide melodie, pure troppo per un gruppo associato a quel genere. Lui cortesemente e senza scomporsi, con entusiasmo controllato, ribatte “Yeah, is a BLACK-GAZE band!”. La mente corre ai suoi connazionali Alcest, intriganti ma certo non così coinvolgenti quanto l'ascolto odierno. Black gaze: quello strano ibrido che miscela ritmiche e voce black metal imparentandolo con sonorità eteree, dolci e sognanti di stampo shoegaze, sulla carta talmente agli opposti da suscitare ilarità o quantomeno non pochi dubbi sulla sostanza, nel quale includerei qui nostalgie screamo HC '90 e digressioni mutuate dal più riflessivo indie/postrock in crescendo (in primis di ascendenza Mogwai, con chitarre talvolta echeggianti persino i Dinosaur jr.). Ci penso qualche altro minuto e mi accaparro Ordinary corrupt human love sborsando €15 richiesti... Mai acquisto, negli ultimi anni, fu così prezioso (al quale accoppierei quello che è considerato il loro sophomore album, il secondo Sunbather del 2013, da molte riviste e libri specializzati ritenuto uno dei capolavori del metal -in senso lato- del nuovo millennio)!
OCHL però diventa lo spartiacque della carriera: forse la band meditava già una sterzata direzionale (nonostante i tanti responsi positivi ricevuti, ricordo la nomination al Grammy per il pezzo Honeycomb come best metal performance), anche se quando fu postato nel 2019 il brano Black Brick, rimasto inedito su disco (trattasi di una outtake da OCHL, con cui davvero c'entrava nulla, di fatto il brano più estremo della carriera), fatto circolare unicamente tramite file audio, veemente attacco poco stemperato a mostrare il feroce lato black metal dei 5 -una nera sfuriata che si erge per la (quasi) totalità della sua durata- non era facile presagire che proprio questo avrebbe messo la parola fine alla prima fase della band, che si apprestava a festeggiare con un bel tour mondiale i suoi 10 anni nel 2020. Questo purtroppo non è accaduto, e sappiamo benissimo il perchè, handicap che ha portato a far uscire un live in studio celebrativo dell'evento, con le 8 tx poste come si sarebbe articolata la scaletta base del tour, a sancire anche, dopo la doppia parentesi Anti/Epitaph, l'approdo alla Sargent House. Dunque, preso il coraggio a piene mani si sono tuffati completamente nel nuovo corso e l'uscita ad agosto 2021 di Infinite Granite fuga ogni dubbio a riguardo: la svolta è compiuta.
D'altronde l'avevamo subito intuito dall'ascolto delle anteprime, a ridisegnare i nuovi equilibri della cornice sonora, sempre consapevoli dei propri mezzi e forza, seppur in altra convinta forma, dove la maggiore accessibilita' non implica uno svendersi al mainstream (considerando pure il minutaggio medio dei brani che, pure sforbiciato, si attesta sui 6 minuti). Il tiro negli episodi piu' diretti e' senza dubbio catchy, visto che ora si lavora sul pieno melodico, impregnato di una increspata grana che diventa pura immersione in un gioco di colori e avvincenti suggestioni in chiaroscuro. E scopriamo pure il cantato pulito di George Clarke (parallelamente attivo con i nuovi Alto Arc), straniante a primo approccio, abituati come eravamo fino a poco fa, che messo da parte il tipico rantolo black (per la gioia delle sue corde vocali), fornisce una prova delicata che si presenta ben funzionale al contesto e tanto basta (almeno tanto quanto i suoi dolenti, evocativi testi, nei quali riversa il suo personale caos calmo).
9 brani dalla produzione avviluppante ma slanciata, curata dal nuovo producer Justin Meldal-Johnsen (con la collaborazione del fido Jack Shirley), che offrono ben piu' di una fascinazione shoegaze/dream indie pop (dal nerbo propriamente rock), sempre presente sin dagli inizi ma, non dimentichiamolo, rivista e tradotta da angolazione post-metal (componente rintracciabile se proprio vogliamo, e mooolto stilizzata, nel denso tono dei brani più che nel suono d'insieme), galassia ove hanno orbitato per anni (anche se in tanti già faticavano a inserirli in tale contesto per sangue e radici, preferendo distinguerli come band alternative, per quanto estrema).
(Heavy) shoegaze dei giorni nostri, graffiante talvolta ma spesso battente bandiera riflessiva, dinamico e fisico quando ci vuole, con presenza di synths e le ispirate chitarre a tessere, riempire e ricamare incastri, riverberi, stratificazioni e liquidi arpeggi -più che riff- in una impalcatura dalla dilatata linearità strutturale, mancanti di quelle improvvise schegge variabili e sporgenze che ne mutavano mood e svolgimento all'interno dello stesso brano (tendenza predominante fino a OCHL, che piu' che ravvivare esaltavano gli stessi), ma senza che questi nuovi perdano efficacia ed intensità poichè settati su differenti geometrie.
L'opener Shellstar aggiorna ed incanala al meglio l'ascolto dei DFHN odierni come pure l'accattivante Great Mass of Color (ottima, con uno spesso finale d'altri tempi), l'alta offerta dreamy di In Blur non si traduce in mera ruffianeria; la corposa The Gnashing ci attira col suo nebuloso magnetismo nella sua orbita senza ritorno, le sfaccettate Villain e Lament for wasps proseguono seducenti nel loro andamento, l'ondeggiante Other language dal soffice temperamento che cova sotto la cenere fino all'estatica chiusa... Sicuramente alleggeriti da quell'ansia che li travolgeva, ora si mostrano più liberi di fluttuare ed espandersi, come ben sottolineato dal pulsante blu sfocato adottato per l'artwork, capace di illustrare e integrare le sensazioni spacey che scaturiscono dall'ascolto (se e' vero che a tale colore viene associato l'infinito).
Non abbiamo davanti i nuovi Ride, Slowdive o Swervedriver, se ve lo volete sentir dire, ma una band in costante movimento, che guarda sì a taluni modelli prendendo quanto serve, ma senza sminuire il proprio operato presente e passato (a cui possiamo ascrivere la placida e lunga Mombasa, che monta avanzando sino al subbuglio finale), con brani che sembrano talvolta sospendersi nelle parti centrali prendendo spesso forza d'insieme nelle (splendide) fragorose code finali. Insomma il gioco di squadra ancora una volta ha prodotto un lavoro meritevole, che spero solo non venga svalutato per mero pregiudizio.
Brillante specchio di una evoluzione coerente, a segnare un'ambiziosa ripartenza generale, da parte di una band che non ha paura di osare anche a costo di spiazzare l'audience, ancora una volta. Questo per me è IG, best lp 2021.
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